Se volevamo un’anticipazione sul nostro (possibile) futuro, questa settimana l’abbiamo avuta attraverso due immagini che sono circolate ampiamente in rete. La prima è in realtà un video pubblicato da Boston Dynamics, società specializzata nella produzione di robot e ora di proprietà di Google. Nel video si vede un robot umanoide che mentre è intento a sollevare da terra uno scatolone viene colpito ripetutamente da un ricercatore dell’azienda fino a rovesciarlo. Il robot riesce a superare tutti questi ostacoli e, con apparente infinita pazienza, si rimette in piedi e porta a termine l’obiettivo di raccogliere e sollevare lo scatolone.
Una dimostrazione tangibile della rapida evoluzione della ricerca e delle applicazioni nel campo della robotica cosiddetta di servizio, ossia dei robot che lasciano le gabbie dentro le quali sono confinati nelle fabbriche ed entrano nelle nostra quotidianità svolgendo tutta una serie di compiti, più o meno complessi, a stretto contatto con noi umani. La seconda immagine, forse ancora più popolare della prima, ritrae Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, mentre cammina in platea dove tutte le persone indossano un visore di realtà virtuale sviluppato da Samsung e presentato al Mobile World Congress di Barcellona.
Nell’evento Zuckerberg ha fatto provare al pubblico Oculus, la tecnologia di realtà virtuale che sta sviluppando con una società ad hoc. L’immagine colpisce perché ci mostra un’umanità alienata dalla realtà e soggiogata dalla potenza dell’elaborazione software: i loro corpi sono in sala ma la loro mente è intrappolata nelle maglie della realtà virtuale.
Le due immagini assieme sembrano confermare la distopia anticipata nei libri di Asimov e a seguire in molta cinematografia di Hollywood (da Blade Runner fino a Terminator). Se il lavoro fisico, ma anche quello cognitivo con il consolidamento dell’intelligenza artificiale, diventano sempre più oggetto dell’intervento dei robot, agli umani non resta che rifugiarsi nel porto sicuro della realtà virtuale, dove trovare un po’ di consolazione. Un incubo vigile.
Molti autori sostengono che siamo solo all’inizio di una rivoluzione tecnologica che avrà importanti conseguenze economiche e sociali. Frey e Osborne, due ricercatori dell’università di Oxford, hanno provato a stimare l’impatto che l’applicazione su vasta scala di robotica e Intelligenza Artificiale potrebbe avere sull’occupazione negli Stati Uniti. I risultati non sono rassicuranti: circa il 47% delle attuali occupazioni rischia di essere sostituito dal lavoro robotico. Non ci sono solo, come è immaginabile, i lavori meno qualificati e semplici ma anche quelli che consideriamo non ripetitivi e che richiedono un percorso di apprendimento qualificato più o meno lungo come l’autista, il broker finanziario e in parte l’avvocato.
Le auto senza autista di Google che, sebbene in fase di test, già circolano almeno negli Stati Uniti, i resoconti finanziari della rivista Forbes scritti in modo automatico da un robot (software) e non più da un giornalista, ce lo dimostrano. Un’evoluzione con la quale quindi saremo presto chiamati a confrontarci e che rischia di esacerbare quel processo in corso di sostituzione tra capitale e lavoro che è all’origine della diseguaglianza economica e sociale di cui ci hanno parlato a lungo economisti quali Krugman, Stiglitz e Piketty.
Se però proviamo a guardare più da vicino il mondo della Robotica, ci possiamo rendere conto da un lato che la realtà è (per fortuna) ancora lontana dal futuro distopico di cui abbiamo parlato prima, dall’altro che all’interno del mondo della ricerca si stanno perseguendo anche strade alternative a quelle della radicale contrapposizione tra lavoro umano e robotico.
Roberto Cingolani e Giorgio Metta, rispettivamente il direttore dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova e responsabile dell’iCub Facility presso lo stesso istituto, nel libro Umani e Umanoidi. Vivere con i Robot pubblicato dai tipi de Il Mulino ci descrivono i molti limiti (e le altrettante frontiere) che caratterizzano ancora la ricerca e la tecnica dello sviluppo dei Robot; dalla necessità di abbassare i loro costi di produzione a tutto un insieme di problemi legati all’energia necessaria al loro funzionamento.
Cingolani e Mietta sostengono che per avere un funzionamento paragonabile a quello umano i Robot avrebbero bisogno di una quantità di energia pari a quella necessaria per far funzionare una piccola città. Fortunatamente l’evoluzione ci ha donato una macchina biologica molto efficiente che con un apporto energetico modesto (pari a 40watt giornalieri) riesce a svolgere compiti molto complessi.
Come sostiene Riccardo Oldani in Spaghetti Robot. Il made in Italy che ci cambierà il futuro” pubblicazione da Codice Editore, la ricerca italiana nel campo della robotica non è solo una delle migliori al mondo ma è caratterizzata da un approccio particolare culturale che potremmo definire robotica umanistica. Invece di pensare al robot come a un “sostituto” integrale del lavoro dell’uomo una parte importante della nostra ricerca in materia sta lavorando alla realizzazione di soluzioni che siano in grado di valorizzare al massimo le conoscenze e il know-how umano.
Questa sensibilità umanistica nell’immaginare il ruolo dei robot si riscontra nelle aziende del Made in Italy che hanno iniziato a utilizzarli in produzione. Parlando con imprenditori, ingegneri e operai e vedendo le soluzioni adottate nella pratica è possibile identificare gli elementi che qualificano il modello italiano. Il primo è legato alla trasformazione del lavoro operaio in lavoro artigiano. L’uso dei Robot libera il personale dallo svolgimento di attività ripetitive e standardizzate e permette di rendere molto più produttive le conoscenze e le abilità che hanno maturato in anni di lavoro.
Da questo punto di vista, il know-how di chi lavora viene valorizzato sia per mettere a punto il lavoro del Robot sia può essere indirizzato verso attività a maggiore valore aggiunto come la prototipazione, il controllo qualità e la risoluzione di problemi complessi legati al prodotto, come eventuali difettosità. Un lavoro che si svolge con le mani ma che richiede sempre più capacità riflessive e di problem solving. Il secondo riguarda la messa in opera dei robot. Contrariamente a quanto si possa pensare la loro applicazione nella produzione manifatturiera richiede una forte capacità creativa da parte dell’impresa e dei suoi lavoratori.
I robot non sono come dei computer che una volta attaccati alla spina funzionano ma richiedono addestramento (software sviluppato ad hoc) e attrezzature specifiche (hardware adatto alla specifica attività che devono fare). E quest’attività deve essere svolta dall’impresa, con l’aiuto di eventuali fornitori specializzati, la sola ad avere il dominio della tipologia di attività manifatturiera da automatizzare.
Quando in Arper, aziende leader a livello internazionale in sedute e imbottiti, hanno iniziato ad utilizzare i robot per l’incollaggio del rivestimento delle sedie, hanno scelto di sviluppare al proprio interno anche le competenze di programmazione del software: solo così sono riusciti ad ottenere il livello di qualità che si erano prefissati. Sembra un paradosso ma la crescente automazione spinge le imprese ad investire maggiormente nel capitale umano e valorizzare in modo originale il proprio know-how.
Non sappiamo quale tra i due approcci alla robotica, quello sostitutivo e quello più umanistico basato sull’integrazione con il lavoro umano, prevarrà. Quello che possiamo dire è che la robotica umanistica, oltre che meno terrorizzante, appare più in linea con le caratteristiche del nostro sistema manifauttiero e con la necessità di aumentare la produttività delle nostre imprese senza snaturarne le specificità. Si può continuare a produrre sedie bellissime con gli umani aiutati dai robot.